I social ci rappresentano ancora? Chissà se Zuckerberg si è posto anche questa domanda durante il processo creativo che l’ha portato alla decisione di virare sul metaverso; non lo sapremo mai, possiamo però utilizzarla per noi quella domanda, provando a comprendere il presente e immaginare il futuro che, con o senza metaverso, sta delineando adesso le sue evoluzioni.

Il mondo virtuale (che c’è già)

Dal giorno della presentazione del nuovo brand Meta, unita all’annuncio del passaggio al metaverso, in rete sono fioriti articoli sul tema insieme alle prime immancabili guide definitive, prodotte da guru in possesso di una spregiudicata capacità predittiva; così, vorrei tranquillizzarti e dirti che le prossime righe vogliono essere un tentativo di immaginare il futuro attraverso la logica del presente, visto che di certezze, al momento, non ne abbiamo.

Il progetto di trasformare Facebook, ora Meta, in piattaforma virtuale, è molto più che ambizioso e richiederà tempo e risorse (anche umane) per essere realizzato in tutta la sua complessità; siti autorevoli come Forbes, prospettano addirittura un tempo di creazione che va dai dieci ai quindici anni, quindi respira, c’è tempo, ma soprattutto ci sono modificazioni più sottili già in atto nel digitale, che probabilmente ci traghetteranno da qui ai prossimi cinque anni.

La realtà virtuale esiste da tempo e lotta insieme a chi ha passione per il gaming; i brand si sono già fatti avanti con i loro prodotti e dare un’occhiata in questi spazi può tornare utile per immaginare un metaverso allargato.

Se decidessi oggi di far nascere un brand, probabilmente mi organizzerei per costruire un sito, la casa ideale nella quale ospitare la storia, le immagini, le collaborazioni e i prodotti che voglio raccontare alle persone; nel metaverso invece dovrò immaginare uno spazio per accoglierle quelle persone, o meglio, i loro avatar.

Dovrò decidere il linguaggio da utilizzare per questo “incontro”, come intrattenere, informare, condividere esperienze; potrò scegliere se vendere lì i miei prodotti, oppure indirizzare gli acquisti nello spazio reale: per ogni brand sarà differente.

scarpa sportiva venduta da Gucci nel metaversoGucci, ad esempio, ha creato delle scarpe utilizzabili (tramite app) solo su piattaforme virtuali come VRChat e Roblox; si chiamano Virtual 25, costano diciotto dollari e per indossarle sono richiesti un bel paio di piedini virtuali. Il famoso brand del lusso sceglie una moneta reale per lo scambio e inizia a presidiare uno spazio virtuale con i suoi prodotti.

 

Continuando il ragionamento sul mio potenziale nuovo brand, dovrò decidere se avere un’unica gamma di prodotti, o se differenziare l’offerta del metaverso da quella fisica e con quale moneta effettuare i pagamenti, se reale o criptovaluta.

Mi serviranno figure professionali con spiccate doti creative (social media manager del futuro?) che insieme a designer e ingegneri possano progettare spazi nei quali l’estetica e il marketing sposino un’esperienza cliente indimenticabile.

Per quel che ne so ora, tutte queste scelte le farò sulla base delle esigenze del mio pubblico, che potrebbe non essere assolutamente interessato a vivere esperienze virtuali, sempre che questo non diventi il media principale del futuro: staremo a vedere.

Quello che resta più complesso da immaginare è tutto il processo legato all’analisi dei dati, che non potrà più essere in capo a chi gestisce i social, sempre che si chiameranno ancora così; anche l’impostazione della privacy risulta difficile da immaginare, considerando che si tratterà di dati e di “corpi”.

Il nostro caro Marc dovrà gestire una discreta complessità, fornendo garanzie fino ad oggi disattese; dal canto suo promette di progettare uno spazio virtuale meno privatizzato e più sicuro, ma il dubbio che dietro a tutto ciò esista il bisogno di sfilarsi dai rapporti con Apple viene, dato che compromettendo il tracciamento dei dati, qualche danno economico, il brand della mela, gliel’ha procurato.

Il futuro del social media marketing

Per affrontare questo passaggio mi affido ancora alla logica e all’osservazione della realtà di questi ultimi mesi, nei quali si è registrata una crescita esponenziale dei creator che stanno diventando i veri agenti del cambiamento del marketing dei media digitali.

Sono creatori di contenuti che troviamo sui social, ma sono anche videomaker, blogger, community builder, che con il loro seguito di fan hanno dato vita alla creator economy, per sostenere il loro lavoro creativo in maniera indipendente.

È un’economia fertile che si basa sulla relazione diretta con un pubblico disponibile ad acquistare abbonamenti per la fruizione di contenuti altamente creativi e a essere guidato nella scelta di prodotti o servizi; è una fiducia che nasce dalla disposizione di follower stanchi di aver a che fare con brand senza volto e alla ricerca di persone vere con le quali stabilire una relazione di fiducia.

L’influenza dei creator nella pianificazione digitale

Sino a poco tempo fa, la persona a capo della gestione strategica dei social e delle piattaforme digitali (SMM) insieme al suo team, progettava e calendarizzava il piano editoriale, si occupava della pianificazione strategica e dell’analisi dei dati dalle campagne ADS, progettava le strategie in occasione di promozioni, lanci di prodotto, eventi speciali e supervisionava le attività delle community.

L’ingresso dei creator in azienda cambia le regole del gioco consegnando a loro tutta l’operatività che caratterizza la produzione dei post e riducendo sensibilmente quelli creati direttamente dal brand; anche l’analisi dei dati si sposta in capo a una figura verticale sulla materia, che possa incrociare quelli prodotti dalle piattaforme interne con quanto generato dai creator.

La figura professionale destinata al management dei media digitali diventa così sempre più legata alla creatività e alla pianificazione strategica della community e sempre meno all’operatività; un esercizio creativo/strategico che tornerà utile quando il metaverso prenderà forma e bisognerà progettare il mondo virtuale del brand.

Se mi guardo intorno mi rendo conto che per molte realtà aziendali tutto questo sta già accadendo e la ridefinizione di alcune professioni è in atto.

La spinta alla base di ogni evoluzione digitale viene generata dalla necessità di trattenere le persone il più a lungo possibile all’interno delle piattaforme, vale per Zuckerberg con il metaverso che per i brand con l’adozione di sempre nuove e mirabolanti strategie per catturare l’attenzione e aumentare i profitti.

Il diritto al profitto di piattaforme e brand resta sacrosanto, a patto che affondi le sue radici dentro un pensiero filosofico che tenga conto anche del benessere delle persone, costantemente sollecitate a trascorrere una quantità di tempo sempre maggiore in rete e in futuro all’interno di mondi paralleli a quello reale.

Virtuale, digitale e corpi fisici: la filosofia ci mette in guardia

Quando gli strumenti non sono mossi da una visione etica del mondo, che ne attribuisca un’anima e ne regoli l’esistenza all’interno dell’ecosistema umano, i rischi di creare danni nelle persone più fragili diventano reali.

La rete digitale e il mondo virtuale in quanto strumenti, non contemplano il corpo fisico che viene coinvolto unicamente all’interno del lessico commerciale, così, immaginare un futuro che lo escluda completamente a favore di un corpo virtuale pone interrogativi ai quali bisogna trovare risposte.

All’interno della lectio magistralis del filosofo coreano Byung Chul Han sui “non oggetti”, tenuta a Roma nell’ottobre scorso, in riferimento alle conseguenze del digitale sui corpi fisici, viene riportato un episodio occorso a un attore di film porno che, durante le riprese di una scena, fa cilecca.

Infastidito dall’accaduto si avvicina al suo smartphone, chiedendo al regista di concedergli qualche minuto utile alla visione di un film porno, per recuperare tonicità (sic).

Per l’uomo, ormai assuefatto a una relazione tossica con la rete, non è più il contatto fisico con un altro corpo ad animare i sensi, bensì un video proiettato sullo schermo del suo smartphone: ci siamo già dentro senza rendercene conto?

Han prosegue spiegando che il contatto prolungato con l’ambiente digitale ci sta allontanando da una percezione sana del nostro corpo fisico e che a rischio maggiore sono le persone giovani; un’indagine svolta all’interno delle università giapponesi, rivela che studenti e studentesse dichiarano di temere l’incontro con altri corpi: il 50% di loro ammette di non aver mai avuto rapporti sessuali e di non volerne avere.

Continuando a sviluppare il suo pensiero, il filosofo traccia quindi una strada futura nella quale le persone avranno rapporti solo con le macchine, qualcosa che immaginato ora oltre a consegnarci allo sconforto, dovrebbe spingerci ad alzare la soglia dell’attenzione, proprio su quel futuro virtuale che si sta preparando.

Brand e addettǝ ai lavori avranno la responsabilità di costruire relazioni digitali più equilibrate, inserendo all’interno dei team figure professionali legate alla cultura e alla filosofia che collaborino alla creazione di strategie con un’anima etica capaci di produrre ricchezza mantenendo al centro di qualsiasi azione comunicativa (reale o virtuale) il benessere delle persone.

Questo articolo è uscito per il magazine Comm Hoepli

 

Essere umano, copywriter, UX writer & event designer at Linguaggi Umani | info@robertamarchi.com | Website

Mi chiamo Roberta Marchi e scrivo per aiutare brand e persone a incontrarsi, sia in digitale che live.

Mi appassiona la visione d'insieme e la creatività, che senza analisi è nulla. Credo nella comunicazione che rilascia ispirazioni, come quelle che ho ricevuto viaggiando; l'incontro con culture diverse mi ha insegnato a contaminare le mie certezze per non sentirmi mai troppo al sicuro e restare disponibile al cambiamento.