Mi capita di pensare alla pandemia come a un’imboscata, un attacco vile simile a una coltellata alle spalle, che in un attimo ha consumato il passato, come fa un’esplosione nucleare con l’aria, lasciandoci a terra senza fiato. Noi, che eravamo lì intentǝ a programmare le prossime campagne di mail marketing, a catturare l’attenzione altrui con svariati mezzi di distrazione e disturbo, non avremmo mai immaginato di vedere tutto quel fare convulso e delirante superato dalla vita, che accade seguendo un suo corso, spesso dissimile dal nostro. Noi, che oggi ci troviamo di fronte a un mondo stravolto, col quale dobbiamo continuare a conversare per restare sul mercato, possiamo dare al content marketing un significato adeguato al tempo.
Cos’è il content marketing
Se voglio capire gli effetti del presente devo guardare le cause del passato, così, ricomincio dal significato di content marketing per provare a capire come si è deteriorato quello che stavamo facendo e trovare un modo per correggere il tiro che, dopo gli scivoloni del 2020, non sembra aver trovato traiettoria.
Per farlo attingo all’autorevole punto di vista espresso nel blog di mailchimp, per ricordare i nobili presupposti iniziali, poi deformati durante il percorso.
Il contenuto di marketing si definisce attraverso l’applicazione di alcuni punti chiave:
La teoria era buona per una strategia content marketing, disegnava un percorso virtuoso diretto al benessere delle persone che acquistano; nel tempo però, questo disegno è mutato, le persone sono diventate bersagli e il loro benessere barattato con quello delle aziende.
Le persone sono il fine, non un mezzo
L’ approccio iniziale è stato l’impulso per una fioritura di contenuti di grande valore, messi a disposizione delle persone, da aziende e professionistǝ che grazie a queste pratiche, hanno visto sbocciare i propri business; poi qualcosa è cambiato, sono arrivati i social, la tecnologia si è fatta più sofisticata e vorace e si è iniziato a pensare che utilizzare i contenuti per ottenere in cambio qualcosa dalle persone fosse equo.
Così, l’orientamento iniziale si è trasformato; la prima transazione commerciale avveniva nel momento in cui per ricevere un’informazione “utile” era necessario lasciare i propri dati agganciandosi all’azienda, a quel punto in grado di inseguire chiunque nella navigazione, proponendosi costantemente con banner e sponsorizzate, fino al momento del primo acquisto dove avrebbe stretto ancora di più i lacci di quel legame tossico.
I dati riservati sono diventati l’oro della rete mentre le persone, più facilmente denominate target o cluster di clienti, si sono trasformate in mezzi, interfacce di un sistema volto esclusivamente al profitto.
Per anni il povero pubblico è stato tempestato da guide definitive, che poi definitive non erano mai, dalle dieci regole per avere successo in qualcosa e dai titoli (tutti uguali) degli articoli ospitati nei blog, impegnati a dispensare consigli su qualsiasi argomento.
Per non parlare delle mirabolanti tattiche (o leve) di scarsità, sulle quali le persone atterravano dopo aver percorso un imbuto fatto di mail appositamente costruite per creare la percezione di un valore “gratuito” sempre maggiore, per il quale poi l’azione di acquisto restava l’unica opzione possibile.
Che più del desiderio di aiutarle ad avere successo, tutto ciò ha rappresentato bene il desiderio di profitto delle aziende, un po’ a qualunque costo.
La stanchezza del “target” inizia a farsi sentire già prima della pandemia e c’è chi nel 2019 metteva in guardia sul calo dell’efficacia di queste pratiche discutibili, ormai sgamate da un pubblico insofferente e infastidito.
Hubspot, con la lungimiranza che solo i dati concedono, consigliava caldamente di ravvedersi sull’outbound marketing e smettere di martellare le persone con l’invio di messaggi, per dedicarsi a un più attuale e sostenibile inbound, facendosi trovare quindi, piuttosto che dando la caccia, con strategie di conten marketing più sostenibili e concrete.
Quando l’intero sistema di marketing arriva a interrompere le persone 2000 volte al giorno, la reazione da parte del pubblico è prevedibile, almeno quanto dovrebbe esserlo quella delle aziende che, se non fosse sopraggiunta la pandemia, forse sarebbero ancora lì a provarci (e alcune ancora lo fanno).
Il futuro del marketing nella filosofia: il pensiero di Luciano Floridi
Il marketing accostato alla filosofia potrebbe sembrarti un ossimoro; in realtà è la spinta verso il salto quantico che marketing e comunicazione devono spiccare da tempo, e il pensiero rivoluzionario del Prof. Floridi ne sarà il giusto propulsore, anzi, sta già accadendo.
“Il marketing come qualsiasi altro progetto, dovrebbe proteggere l’umanità”, un manifesto che il professore spiega indicando strategie che diano valore alla persona prima che al consumatore, rispettando la sua condizione umana.
Sono saltati i confini (da un po’)
Per capire come agire dobbiamo chiederci se abbiamo compreso e soprattutto accettato il contesto nel quale viviamo; in questo tempo ibrido non esistono confini netti a definire aziende e acquirenti come attori fissi della compravendita, un contesto descritto perfettamente nel libro Blur – la velocità del cambiamento della connected economy (1998).
“I consumatori vendono e i fornitori acquistano, le case sono uffici e non esiste una chiara demarcazione tra strutture e processi, possesso e utilizzo, conoscenza e apprendimento, reale e virtuale”.
Ti dice qualcosa?
È la descrizione vivida del tempo attuale che si presentava così già vent’anni fa, con una tecnologia bambina ma che all’ora come adesso prometteva l’incertezza insieme a tante cose buone, alcune sfuggite dalla nostra presa unicamente concentrata nel profitto.
Ma in questo tempo ibrido scegliere una direzione netta, un’unica soluzione non funziona; il “bianco o nero” è anacronistico almeno quanto discutere se lavorare in smart working o no; come dice Alessandro Baricco è un approccio novecentesco ai problemi che non ha più i codici per rintracciare le soluzioni.
Le regole del marketing (e del content marketing) utilizzate siano a qui e dentro alle quali abbiamo messo radici, non sono più in grado di interpretare la realtà; possiamo continuare a fare le stesse cose di sempre rischiano l’oblio, oppure accettare la liquidezza del nostro tempo e navigare decidendo la rotta giorno dopo giorno.
Quella gigantesca mole di informazioni
Gli studi del Prof. Floridi rivelano che nel 2025 la produzione di informazioni sfiorerà i 175 ZettaByte (ZB, dove 1 ZB = 1 099 511 627 776 Gigabyte) un numero impronunciabile, risultato della sempre maggiore iperconnessione tra società, individui e cose.
Sono le informazioni che sin ora abbiamo utilizzato per dare la caccia al pubblico in rete, da convertire in idee e innovazione. È il momento per dare spazio alla creatività.
Le opportunità di vendita andrebbero create dentro a un sistema di valori sociali e culturali che abbiano l’obiettivo di proteggere le persone, partendo da tre punti cardine:
Si può fare: esempi virtuosi
Qualsiasi teoria verifica il suo spazio di espressione nel momento in cui se ne rintracciano i codici di applicazione e in questo caso qualcunǝ ha già messo a terra forme di marketing sostenibili per persone e aziende, che non interrompono, invitano senza chiamare, non inseguono ma si fanno trovare lì dove ci si può riconoscere per ideali e valori.
Altromercato
Un segno differenziante del loro modo di stare sul mercato, che parla direttamente alle persone che quei valori li condividono e possono riconoscersi nelle azioni e in un modo di comunicare pulito, diretto e incisivo.
Nel sito già dalla head si parla chiaro, chi compra qui fa scelte che vanno oltre i gusti e il costo: i valori sono parte della scelta del prodotto.
I messaggi sono puliti, non esistono elementi di disturbo e nessun banner a interrompe la navigazione, per lasciare spazio al racconto di una storia fatta d’impegno sociale e divulgazione di una cultura del commercio lontana dallo sfruttamento di ambiente e persone.
Sui social informano, ispirando il pubblico a diventare consapevole imparando a scegliere, invece di consumare.
I tre parametri indicati da Floridi sono rintracciabili in questo modo di comunicare, nella creatività utilizzata e in una formula di marketing che non contiene una vendita, ma che promette il profitto attraverso un canale forse più lento, ma molto più solido sia nella costruzione di una community che nei risultati a medio e lungo tempo.
Chi comunica e fa marketing ha delle responsabilità
Ho sempre pensato che la comunicazione e il marketing dovessero essere considerati come strumenti educativi, andando ad impattare sulla vita delle persone con messaggi ripetuti nel tempo e in grado in influenzarne il pensiero, e se oggi le nostre società non brillano per umanità, la causa va cercata anche in questi ultimi dieci anni di marketing selvaggio.
Così, se i nostri contenuti mentre vendono educano, dobbiamo prenderci l’impegno di farlo bene, cercando di includere il più possibile, informare, ispirare, aiutando le persone a spegnere le fobie create dal digitale, al posto di amplificarle; possiamo impegnarci nella costruzione di messaggi che plachino il disagio, che sta causando danni enormi anche ai più giovani, di sentirsi costantemente in ritardo nei confronti di qualcosa come nel raffronto con gli altri.
Avevamo messo radici in un sistema che pensavamo potesse generare profitto all’infinito sconfinando nell’inganno ai danni del consumatore; possiamo rinunciare a quelle radici, attingere a un vero talento creativo (per chi ce l’ha) e iniziare a utilizzare quell’enorme quantità di dati per creare storie significative, in grado di ispirare e proteggere le persone che, indisponibili ad aderire a pratiche obsolete, ci stanno chiedendo di portarle altrove.
Questo articolo è uscito per il magazine Comm Hoepli
Mi chiamo Roberta Marchi e scrivo per aiutare brand e persone a incontrarsi, sia in digitale che live.
Mi appassiona la visione d'insieme e la creatività, che senza analisi è nulla. Credo nella comunicazione che rilascia ispirazioni, come quelle che ho ricevuto viaggiando; l'incontro con culture diverse mi ha insegnato a contaminare le mie certezze per non sentirmi mai troppo al sicuro e restare disponibile al cambiamento.